Disprezzo

Ho visto il nulla,
ho letto di miserie,
ho inteso le vacue parole,
ho ascoltato il canto dell’ "è bene",
ho appreso la vostra lezione.

E ora,

io

vi disprezzo,
come mai
potrete
fare

voi.

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Ombre

Quando le luci sfumano e tutto si ammanta di blu, ecco che arrivano.

Giungono in file poco ordinate, prima ne appare una, poi un’ altra e così via.

A volte sembrano amiche e invece sono sordide avversarie.

A volte le guardi negli occhi e tremi, ma poi ti tendono la mano.

 

Sono ombre, spiriti emersi da un passato-presente-futuro senza tempo, sono i miei spettri, sono le speranze e le ispirazioni, sono acqua, terra, fuoco e aria.

 

Sono il profumo stesso della notte.

 

Dilatano la realtà fino a farla divenire un non luogo plausibile, l’unica dimensione credibile.

E mentre ti volti e ti rivolti, posi le piante dei piedi a terra, in cerca di un confortante refrigerio invernale, mentre ti accendi una sigaretta ed osservi le spire del fumo avvilupparsi in una danza impressionista, mentre tenti di immedesimarti in un mondo che non conosci e che ti scorre ad un palmo di naso, dietro tanti, microscopici, cristalli liquidi, ecco che le vedi danzare attorno a te.

 

Sono buone e cattive ad un tempo, ma tu lo sai. Sono le tue sentinelle grigie, i tuoi fanti dalle scure carabine, sono il tuo esercito di carcerieri.

 

Sono i colori delle tue notti, da quando ne hai memoria, sono  i palpiti accelerati del tuo cuore, sono i lampi che attraversano benevoli la tua mente, infondendo vita a quel brodo primordiale.

Sono quella dimensione che non luccica e non scalda, che non gela e non fa piovere, che non suda, che non scende in strada, che non respira, se non molto lentamente, sono le quinte, sono il vero significato del tutto e del nulla, sono l’apparente consapevolezza di una realtà che non è mai esistita.  Sono l’amore improvviso per l’incipiente Eden, o il pianto sottile e straziante per la grazia che fu.

 

E esse ballano e tu tremi, poi sospiri, poi scrivi, poi dipingi e piangi e ascolti la musica che è in te, ma che di giorno sparisce come evapora la rugiada mattutina quando giunge l’alba.

 

E cerchi rifugio contro il cuscino, ti nascondi fra le pieghe di coperte aggrovigliate, ti annulli, nella speranza che il torpore sovvenga, strappandoti all’orrido e fantastico spettacolo, ma nulla puoi, finché la danza non si esaurisce, finché le ombre non tornano da dove sono venute e il tuo limes è valicato e dalla veglia precipiti, senza scampo, nell’incerto e ondivago mondo che gli uomini chiamano

sogno.

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Pogrom

Pogrom

 

Stai lì che, quasi per caso, ascolti una conversazione tra due colleghi di lavoro. Tu sai che questi colleghi sono laureati ed insegnano i fondamenti di varie branche dello scibile umano. Sono due persone istruite,  sono conoscenti con cui è piacevole scambiare quattro chiacchiere davanti ad un caffè, prima di concentrarsi sul lavoro. La conversazione, dicevo.

<<Sai come sono questi romeni, sono delinquenti>>

<<Sì, ma sai cosa? Sono geneticamente delinquenti, hanno l’istinto dei malviventi! Tu hai mai conosciuto un Romeno che non sia un delinquente?>>

<<No, in effetti no>>

A questo punto, intervieni, spinto da un moto di indignazione, cercando, tuttavia, di mantenere la calma: <<Io ne ho conosciuti, non erano affatto delinquenti>>. A questo punto, uno dei due ti guarda in modo paternalistico, quasi tu fossi un ridicolo adolescente sognatore e replica:<< Sicuramente fingevano, perché sai, in fondo in fondo, sono tutti delinquenti!>>.

 

Così mi è stato riferito da un mio buon amico, uno dei pochi ad aver mantenuto raziocinio, senso della civiltà e rispetto della dignità umana. Eh sì, perché il nostro amato BelPaese si sta avvitando in una spirale sempre più stretta, che penetra sempre più in profondità nel terreno della paura e del razzismo. Paura e razzismo sono fratelli malvagi e spietati, che avviluppano i cuori degli individui assieme, in una morsa letale. La triangolazione mass media-brava gente-politica sta informando il nostro periodo storico di una rinata xenofobia, che nasce nell’ossessione dei telegiornali e maggiori quotidiani nazionali di tenere alti audience e tiratura, passa attraverso gli encefali piatti della brava gente, sempre in cerca di capri espiatori cui imputare la colpa delle proprie disgrazie, infine giunge sugli scranni di Montecitorio, di Palazzo Chigi e delle assemblee regionali, provinciali, comunali, scranni su cui siedono degni rappresentanti di cotanta popolazione, pronti ad assecondare gli umori dell’Italia vilipesa e inferocita.

 

Pogrom è un termine storico di derivazione russa (Погром) con cui vengono indicate le sommosse popolari antisemite e le successive devastazioni avvenute soprattutto al tempo degli Zar di Russia con il consenso – se non con l’appoggio – delle autorità. In questo senso, il primo pogrom contro il popolo ebraico è quello compiuto nel 38 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Più in generale, con pogrom si intendono le azioni violente contro la proprietà e la vita di appartenenti a minoranze politiche, etniche o religiose.

(Courtesy of Wikipedia, the free encyclopedia)

 

Urla inferocita la folla contro quel gruppo di criminali efferati, individui con la grave colpa di occupare uno spazio vicino alle case della povera brava gente, individui che osano respirare la stessa aria, bere la stessa acqua e insistere sulla stessa terra, pur non essendo Italiani (o almeno, così crede la brava gente di Ponticelli), pur non avendo una radice comune nella discendenza da Dante, Boccaccio, Machiavelli e Mussolini. Se la polizia, che, giocoforza, ha fatto quadrato attorno ai malviventi, glielo consentisse, la brava povera gente darebbe ai quei quattro ROM, o meglio Zingari, per non usare queste nuove terminologie dal sapore oscuro, quello che meritano: una morte feroce, per il loro peccato capitale: esistere.

<<Ve ne dovete andare via, sporchi zingari!>>urlano le donne, le mamme, gli onesti lavoratori, perfino qualche ragazzino. <<Se ne devono tornare a casa sua!>> si levano le grida, a volte sgrammaticate per la foga dell’esternazione  a favore di una causa giusta, che più giusta non si può. E quelli scappano, con la coda tra le gambe, senza capire dove sia la loro atroce colpa, ma la maggior parte dell’italico popolo la conosce bene: esistono e non se ne stanno a casa “sua”. Poco importa se più della metà dei ROM è italiana a tutti gli effetti, a causa di una permanenza nel nostro Paese da generazioni e generazioni. E dovunque vadano, la gente li rifiuta, le bravi e pie madri di famiglia non vogliono neanche che alloggino per una notte in un istituto religioso, all’interno del quale la mattina portano i figli a ricevere una cristiana educazione. Poco importano i precetti religiosi, i ROM se ne debbono andare. Meno male che in Italia c’è tanta brava gente.

 

L’aggettivo bravo deriva dal latino pravus, che significa cattivo, malvagio, avendo nel corso dei secoli assunto il significato opposto grazie all’uso del termine in locuzioni ironiche nell’ambito delle quali il termine viene utilizzato in senso improprio (come quando, in Italiano corrente, si costruiscono locuzioni del tipo “sei proprio bravo”, volendo significare che l’individuo cui è rivolta la frase non si sta comportando affatto bene) . Le parole a volte, proprio come gli alberi, affondano le radici nell’humus che le ha generate e da esso sono ancora pervase.

 

Ed ecco che gli indugi sono rotti. Un gruppo di uomini a volto coperto, neri come la pece, nei tessuti e nell’animo, marcia compatta su un quartiere simbolo della possibile convivenza di Italiani e stranieri, un quartiere in cui la criminalità di origine straniera è trascurabile, mentre è alto il numero di non-nati-sulle-italiche-sponde che gestisce un esercizio commerciale, che chiacchiera e ride con i Romani, che vive in pace, come tutti gli Dèi di tutte le religioni del mondo che si rispettino comandano.

Gli uomini neri avanzano per le strette e colorate vie, tra un passante, un ciclista e qualche anziano su una panchina. Una volta avvistati i loro obiettivi, si scagliano con una furia che gli Italiani conoscono bene, anche se spesso hanno la memoria corta: quello stesso colore, quella stessa ideologia, se così vogliamo chiamarla, dandole una dignità che non le è propria, la stessa ferocia priva di intelletto, priva di idee, scevra da vincoli morali. Tre negozi distrutti, un migrante del Bangladesh pestato a sangue e nessun arresto. Il giorno dopo gli abitanti del quartiere si riuniscono al centro dell’isola pedonale fulcro della vita rionale e discutono, si interrogano, riflettono su cosa sia successo e su come si possa arginare questa violenza dilagante. Ma sono e restano una minoranza.

 

Già, perché la maggior parte degli Italiani è orgogliosamente benpensante, civile, borghese, snob, moderata, segue il campionato e la cronaca nera, dice di votare a sinistra, ma sceglie Berlusconi, non legge, ma guarda Maria de Filippi, rigetta gli extracomunitari e pure i comunitari additati dai media, per poi mostrarsi connivente, o peggio cieca, nei confronti di mafia, ‘ndrangheta e camorra, litiga nel traffico, ma ama la famiglia, odia la politica, ma si lamenta perché il sistema non funziona.

 

Una maggioranza compatta e sinceramente italiana, orgogliosamente tricolore, composta da tante, italiche teste di cazzo.

 

 

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Trenta

Trenta

 

Trent’anni. Il giorno fatidico è arrivato. Non mi sento diverso da ieri eppure qualcosa è cambiato. Da oggi, ufficialmente, sono entrato nell’età matura. Abbandono il 2, prefisso degli ultimi 10 anni e mi lancio nel reame del 3, numero biblico, mistico, perfetto. Non sono certo perfetto e tuttavia, se mi guardo indietro, sono soddisfatto e felice della mia vita. Margini di miglioramento ce ne sono sempre e sempre ce ne saranno, perché l’esistenza è un continuo divenire, un inseguimento perenne di un sogno, di più sogni, di un universo di immagini appena percettibili nella mente eppure già mie.

 

Trent’anni di riflessioni, di pensieri, di meditazioni. Trent’anni in giro per l’Europa, da Londra a Birmingham, da Parigi a Barcellona, passando per Sarajevo, San Sebastian, Lione, Albi, Venezia, Milano, Bologna, Berlino, Copenaghen,  Lubiana, Zagabria, Hvar e tanti altri posti. Concepito a Cosasca, cresciuto a Castelnuovo, approdato nella Capitale.

 

Trent’anni di incontri, costellati di persone più o meno importanti, ma tutte significative, tutte armate di matita, penna, scalpello, pennello per lasciare un segno tangibile e indelebile nella mia vita. Trent’anni di amori, di passioni, di emozioni incontenibili fioritemi in petto e mai sopitesi del tutto. Trent’anni di cuori palpitanti, di viaggi speranzosi, di percorsi mnemonici e meccanici. Trent’anni sul motorino, sull’automobile, sull’autobus e sulla metro, sull’aereo e sul tram, sulla bici e parecchi anche a piedi. Trent’anni di lotte, di scontri, di contrasti fisici e mentali.

 

Trent’anni in porta, a guardare gli altri che corrono, immoto, sapendo di dovermi librare, una volta soltanto, mentre gli altri mi osservano nell’attimo preciso in cui sto volando per cercare con le dita la sfera che pervicacemente tenta di gonfiare la rete, con la consapevolezza che non ce la farà, perché io sono più forte di lei, perché io la fermerò, ogni volta. Trent’anni passati a scuola, nelle aule della Sapienza, tra le mura dell’ufficio di Viale Castrense.  Trent’anni di Storia, dalla tesina su Cavour, in V Elementare fino alla “Evoluzione della politica della difesa statunitense e la War Power Resolution del 1973” che ha concluso i miei studi. Trent’anni di traguardi raggiunti con un punteggio sempre un pizzico al di sotto del mio potenziale, perché “sono intelligente ma non mi applico fino in fondo”.

Trent’anni a tentare di dimostrare qualcosa, a volte riuscendoci a volte no.

Trent’anni e tanti chilometri percorsi, chissà quanti, chissà verso cosa, chi e quando.

 

Trent’anni di amicizie, da Francesco a Luca, passando per Dario, Raffaele, Emanuele, Annalisa, Marta, Ivan, Pietro, Alessio, Emiliano, Valerio, Elisa, Giuli, Martina, Francesca, Luca e tanti altri.

 

Trent’anni di musica, di note che mi hanno accompagnato e mi accompagnano in ogni momento, in ogni dove: da Bad di Michael Jackson a Ragazzo fortunato di Jovanotti, da Fear of a Black Planet dei Public Enemy a Gimme the Loop di Notorious BIG, da Aspettando il Sole di Neffa a The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd, da Zero degli Smashing Pumpkins ad Another Night dei Camel.

 

Trent’anni inseguendo la parola scritta: da Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne a Notturno Indiano di Tabucchi, passando per Addio alle Armi di Hemingway e Autodafé di Canetti. Trent’anni trascorsi scrivendo, da Choices a La Valle, da Le repubbliche marinare a Respiro; scrivendo sempre e comunque: racconti, romanzi in pectore, versi e articoli.

 

Trent’anni passati così, in un batter d’occhio e lentissimi.

 

Trent’anni, e sono solo per me e per chi mi vuole bene.

 

Tanti auguri Emanuele Angelo Paolo Marco

 

Time is never time at all
you can never ever leave without leaving a piece of youth
and our lives are forever changed
we will never be the same
the more you change the less you feel
believe, believe in me, believe
that life can change, that you’re not stuck in vain
we’re not the same, we’re different tonight
tonight, so bright
tonight

Tonight Tonight

(Mellon Collie and the Infinite Sadness – 1995)

The Smashing Pumpkins

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Visione – II – Morte

Sì, io lo avvertivo. Avvertivo il pericolo. Annusavo l’olezzo dell’umore acido del predatore che nicchia, in attesa di trovare il momento opportuno per scattare, correrci incontro e ghermirci.

Ero io ed ero un altro fuori di me.

Ero il narratore di una storia di cui ero il protagonista. Io sapevo che nel nostro gruppo qualcuno tramava nell’ombra. Ricordo nettamente di averlo intuito, quando ci guardavo dall’alto, ricordo la cupa figura dai lunghi capelli corvini, la folta barba che ne incorniciava il viso. Un’attesa indefinita, che parve durare molto e non finire mai, poi terminò improvvisa com’era iniziata e mi ritrovai. Mi ritrovai in quella specie di hangar, o meglio deposito di mobili. Sì, un ampio, amplissimo deposito per mobili a pezzi, smontati, con alti scaffali, ma non ricordo legno, né plastica, né stoffe.

Soltanto quella divisa.

Quell’uomo che mi ritrovai improvvisamente affianco pareva davvero un individuo a modo. La casacca bianca a strisce gialle, il cappello a mò di lanciatore di baseball, l’aria affabile. Quelle spesse linee color oro, sopra quel fisico così anonimo, al di sotto di quel volto che tuttavia, tuttavia non riesco a visualizzare.

 

Fu in un attimo di distrazione credo, o almeno, in uno di quegli attimi eterni e subito finiti, quelli che lacerano le profondità dello spazio e si espandono a velocità supersoniche, come l’esplosione di una supernova che genera mille frammenti di materia, mille millesimi di luce, che improvvisamente, improvvisamente tornano indietro, come impauriti e si ricompattano nella nana bianca originaria, si fondono, diventano un unicum.

 

Quel balenio nella penombra. Quel balenio nella penombra e io capisco. Il losco aveva messo in atto il piano, inizia da me. Perché io, perché lì, perché in quel modo? La lama si muove rapida, l’uomo alza il braccio e, con straordinaria precisione, mi trapassa esattamente alla base del collo, per poi affondare lungo la colonna vertebrale, proprio come agisce il matador nell’arena col toro, la stessa tecnica, gli stessi sapienti gesti, lo stesso rituale sacrificale. Ma non c’è un pubblico ad assistere, no, siamo soli. Immediato il senso di debolezza, avverto il sangue che dalla schiena mi cola lento e appiccicoso sui vestiti, per scivolare a terra, su quel parquet così anonimo. Non cado, guardo avanti e vedo lui, il mio amico, con i suoi capelli e la sua barba che avanza, ma del mio assassino a righe gialle neanche l’ombra.

Non sono rabbioso, non sono affranto. Dico qualcosa con tono ironico,  non nei suoi confronti, ma di quella situazione paradossale che pare ai miei occhi sconveniente, per così dire.

Guardo in basso e le vedo. Bianche come le scogliere di Dover, candide come un batuffolo di cotone, nivee, come la spuma del mare. Le mie scarpe di tela.

<<Non posso sporcarle>>dico e sorridendo le sfilo, con gesti semplici e sapienti. Non so neanche più se lui è lì, se sta assistendo all’ultimo atto, al mio ultimo atto. Tolte le calzature, con grazia e calma mi adagio, mi sdraio sul pavimento. Il sangue dovrebbe continuare a scorrere, ma io non lo vedo. Tuttavia avverto la debolezza. So che sta arrivando, lo capisco in quell’attimo.

Sono steso e mi sento stanco, sempre più stanco.

Odo il battito del mio cuore.

E’ regolare, ma rallenta, rallenta e sento una stretta in petto, come fossi in preda all’ansia, ma non riesco ad allentare la morsa, neanche respirando profondamente ed ho l’impressione che la cassa toracica mi sfugga, col suo prezioso tesoro.

Rallenta, rallenta e i battiti sono rintocchi, rintocchi di una campana vecchia e stanca.

<<Questa è la morte>>penso, mentre prosegue quella sensazione di slittamento del cuore, dei polmoni, delle costole e dello sterno.

E mentre sto per abbandonarmi a quel torpore, ho un sussulto mentale.

Io non voglio morire, non ora, non così.

Non ora, non così.

Su.

Alba.

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Memorie -5- 1968, Annus Mirabilis

 And no-one showed us to the land
And no-one knows the where or whys
But something stirs and something tries
And starts to climb towards the light

Echoes (Meddle) – Pink Floyd (1971)

Annus Mirabilis. Per chi, come me, è nato 10 anni dopo quell’anno così denso di avvenimenti e dunque ha iniziato a sentirne parlare con coscienza dopo altri 2 lustri, il 1968 è una tappa ammantata da un’aura mistica, qualunque opinione ci si sia formati in merito. Quarant’anni fa esplodeva il Maggio francese e con esso i movimenti studenteschi in tutta Europa (e non solo, si pensi, ad esempio a quanto accaduto negli atenei statunitensi, su tutti l’Università di Berkeley). Beh, mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma non avevo pensato a quest’anniversario così importante, finché non ho visto la copertina di una rivista ad esso dedicato e l’ho comprata (l’Europeo, n.d.L.). Ho letto diversi articoli dell’epoca, visto foto dal fascino indescrivibile, cercato di annusare un po’ del profumo di quel tempo.

Non sono molto ferrato sull’epoca, lo ribadisco e faccio pubblica ammenda. La mia è una generazione che dista, drammaticamente, anni luce da quel modo di intendere la vita, nonostante abbia i genitori nati in tempo per essere quei ragazzi con l’eskimo, i tratti gentili, l’aria impegnata, la rabbia urlata e l’innocenza mantenuta.

A livello di testimonianze dirette, laddove per dirette intendo di persone viventi e coscienti all’epoca, ricordo bene un paio di aneddoti che mia madre (17 anni allora) e mia nonna mi raccontano, ciclicamente, fin da quando ero poco più che un bimbo.

Ogni famiglia ha un eroe, un eroe protagonista dell’evento memorabile del fiume del tempo in cui quegli uomini nuotano. Beh, nei moti del 1968, il nostro Ettore, il nostro Orlando, è stato Paolo.

Paolo, il fratello di mia madre. Nel 2008 è un compassato e stimato urbanista, un signore sulla sessantina, distinto, che veste con uno stile classico, talmente classico da risultare quasi innovativo. All’epoca aveva all’incirca vent’anni e frequentava la facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza.

Valle Giulia

La battaglia di Valle Giulia (avvenuta il 1° Marzo, esattamente 40 anni fa). Lui c’era, lui si oppose alla polizia, lui lottò, fece resistenza attiva e passiva. Lo misero in galera per una notte. I miei nonni andarono a riprenderlo il giorno dopo, preoccupati per quanto stava accadendo al proprio primogenito. Credo che nessun genitore nella storia e nel globo abbia mai accettato del tutto l’idea che il proprio pargolo potesse essersi trasformato in un rivoluzionario, a rischio della propria incolumità, quell’incolumità faticosamente preservata per tutto il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.

Gli scontri si susseguirono nei mesi a venire. Una volta, Paolo tornò bagnato fradicio, colpito dal getto degli idranti e la madre lo nascose alle ire del padre, prima che potesse vederlo. Sempre lei ascoltava, spaventata ed ammirata ad un tempo, io credo, le storie che un’amica di mio zio raccontava, sui celerini che chirurgicamente le colpivano il seno coi manganelli e per questo lei, come tutte le altre, si imbottiva il reggiseno con la carta di giornale.

Sono sempre rimasto affascinato da quei racconti, mentre osservavo gli occhi delle mie madri illuminarsi di una luce di orgoglio, un baluginio piccolo, ma splendente.

Sono passati 40 anni dall’Annus mirabilis. Paolo non mi ha mai parlato di quell’episodio, ma in effetti, io non gli ho mai domandato nulla. Molti di quei ragazzi hanno cambiato radicalmente opinione politica, altri si sono persi, per vie traverse, violente e non, altri ancora si sono imborghesiti. Alcuni sono cresciuti, mantenendo una coerenza di fondo invidiabile.

La circostanza che mi lascia perplesso è che, da quello che ho letto, ma soprattutto da quello che non vedo e che non odo, in pochi ricordano, in pochi celebrano, in pochi approfondiscono (neanche io, a dire il vero), in pochi criticano con cognizione di causa. La maggior parte dei ragazzi, a quanto ho capito, non si interessa minimamente al fenomeno, relegandolo in un angolo remoto della storia d’Italia. Progressisti o conservatori, rievocano quell’epoca con parole di distacco, di critica vaga per quell’afflato idealista. Forse scordano che quelle idee cambiarono radicalmente la nostra società, che sta oggi regredendo per mancanza di una spinta simile, di un’opposizione agli abusi dello Stato.

E negli occhi ho quelle foto, quegli occhiali neri, la montatura grossa, quelle facce serie, tese nello spasmo dell’urlo contro il potere, contro l’ingiustizia, le barbe incolte, l’aspetto da bravi ragazzi, i cartelli nelle aule occupate, le assemblee, i sorrisi.

 

 

Ciao 1968, avrei voluto essere in te.

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Il ragno della pace, ovvero la Svezia e il Giappone

Ho un’insana passione per i posacenere. Mi piacciono quelli col pomello che si schiaccia verso il basso e lascia cadere la cenere nel vano sottostante, facendo girare su un perno la rondella di metallo su cui si poggia il grigio scarto. E’ un attimo, a volte due, ma inesorabilmente la polvere immonda svanisce, assorbita, risucchiata dal basso. Non restano che scarne tracce di quella materia che un tempo aveva foggia di tabacco. Ah, il tabacco, croce e delizia di tante persone nel globo.

Che poi, a pensarci bene, prima di Colombo non si fumava, non ci si facevano le canne, non si tirava la coca e non si poteva cucinare la pasta al sugo. In pratica è stato il primo narcotrafficante della storia, eccezion fatta per le traversate oceaniche con cui ha trasportato nel vecchio continente le patate e i pomodori. Ah, c’erano anche i tacchini, ma in fondo non sono così utili: già i polli razzolavano per le aie europee, fratelli più sobri del Turkey made in USA.

Tacchino e turco sono omofoni in inglese, ora che ci penso. Questa coincidenza avrà un significato inconoscibile? Voglio dire, magari è tutto un caso, magari no. A volte da un caso, si può passare, quasi senza accorgersene, ad un casotto.
Quando inaugurarono la nuova linea dell’ 8, il tramvai che da Largo Argentina porta a Monteverde, il mezzo deragliò un paio di volte, meritandosi l’appellativo di Ottovolante. Chissà perché le montagne russe e l’insalata russa fanno riferimento proprio a quella nazione. Saranno state create lì, suppongo. Però, questi ex bolscevichi ed ex sudditi degli Zar, non male! Zar viene dal latino Caesar, come Kaiser.
Ma non voglio disperdermi in chiacchiere, questo no.
Dicevo della mia viscerale passione per i posacenere, in particolare per quelli “a scomparsa”, passatemi il termine. Ne ho uno a forma di palla-da-biliardo-numero-7, un altro a forma di dado, un altro ancora, enorme, raffigurante alcune carte da gioco francesi sui quattro lati visibili. Ne ho puntati altri, in un negozio di oggettistica bizzarra e inutile, all’interno della Galleria Alberto Sordi, davanti a Piazza Colonna.
I Colonna erano la famiglia nobile che dominava Castelnuovo di Porto, il mio borgo natio, secoli e secoli or sono. Gli Orsini, invece, erano insediati a Bracciano e, tra l’altro, ma non mi sono mai stati particolarmente simpatici.
Ho anche un accendino a forma di palla-da-biliardo-numero-8, anche se non ha mai funzionato. Un motivo c’è sempre nel comportamento degli oggetti. In effetti gli oggetti hanno una volontà, una loro saggezza ed una loro dignità. Non ho mai creduto alla storia secondo cui, nel cuore della notte, alcuni di essi si animerebbero, anche se non sarebbe meno plausibile rispetto alla favola sulla riduzione delle tasse, che tanti cantastorie hanno declamato nelle pubbliche piazze.
Avrei voluto fare l’attore, avrei voluto fare l’attore e imparare a suonare la chitarra. Per la precisione, avrei voluto fare l’attore di teatro e imparare a suonare la chitarra elettrica, per poi suonare pezzi di progressive rock. Non so se sarei riuscito, ma insomma, sarebbe stato meglio tentare, no?
Slenn, molti mi chiedono: perché slenn? Alla massa non interessa minimamente delle ragioni che mi hanno spinto ad attribuirmi questo soprannome univoco per il world wide web, ma ad alcuni sì. Un giorno, nell’aula computer del Dipartimento Giuridico della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma, cercavo di costruirmi il mio primo account di posta elettronica. In sostanza tentavo di crearmi un’e-mail, la prima. Eh sì, perché non è che all’epoca (2002-03) Internet fosse poi così diffusa e i computer fossero così potenti. L’adsl era ancora un lusso per pochi e io mi connettevo soltanto dall’Ateneo. Sto divagando e non è opportuno. In buona sostanza, dato che non è possibile inserire nel nome dell’account di posta elettronica caratteri accentati e dato che, fortunatamente, il mio cognome è accentato, non riuscivo a partorire un indirizzo che mi soddisfacesse. Chi mai vorrebbe mandare una mail a emanuele.sale? Pensa che ti ripensa, mi dico: ci vuole un nome figo, cazzo! Figo, cazzo, che interessante ossimoro, ma non voglio perdermi in ciarle. Allora mi dico: contrai un po’ sto nome. Come comincia il codice fiscale? SLAMNL..naa, come suona cacofonico. Un attimo, però: prendi il cognome e toglie le vocali:SL. Ora prendi la prima lettera del nome e aggiungila: SLE. Aggiungi la M, la seconda lettera. SLEM. Mhm, naaaa, sembra una porta che si chiude, o al limite, un torneo di tennis di quelli veramente importanti. Allora prendi la n successiva. SLEN. Perfetto! Oh, ma non accetta questo nome, è necessaria un’altra lettera alla fine! Uff..e allora? Ma certo, raddoppio l’ultima: SLENN!

Il mito aveva avuto inizio.

Da quel momento in poi, tranne sporadiche eccezioni, subito seguite da selvaggio pentimento, il mio universale soprannome per l’etere è stato, ed è, Slenn.

Il mio prossimo posacenere lo chiamerò Slenn

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Memorie -4- Lo sbarco a “sunny Hvar”

 Ho deciso di riportare le prime pagine del diario da me tenuto durante le vacanze in Croazia, nell’estate del 2006, con qualche correzione qua e là, che non ne intacca la purezza originale, ma ne lima un po’ la forma. Ciononostante, come si può notare, spesso i pensieri sono esposti un po’ alla rinfusa, ma è in tale forma che mi sovvenivano alla mente. In fondo, un diario di viaggio è confuso per definizione.


11 Agosto – ore 23, 45 circa


Terra! Siamo giunti ieri mattina dopo un viaggio faticosissimo, in cui abbiamo dormito soltanto 3 ore, accampati nei corridoi della nave, scomodi, denutriti, ma col morale alto e tanta voglia di Croazia.

Hvar si presenta come un’isola brulla e schiva, molto diversa da come ce l’avevano descritta. Non guido, per la prima volta dopo 10 anni, la mia patente non vale più, non l’ho rinnovata, per la gioia di Luca che dovrà accollarsi il peso della guida per i giorni a venire. Abbiamo montato quello che sarà il nostro campo base per i prossimi sette giorni e poi siamo andati a riposarci, esausti come non mai.

Ci siamo destati tardi, intorno a mezzogiorno, poi ci siamo diretti al mare. Finalmente ho preso un po’ di sole, ho assaporato il limpido mare croato, sono stato bene. Il mio morale è medio-alto, mi sento ritemprato e di buon umore. Ho iniziato a leggere On the road di Jack Keruac, mi pare sia venuto il momento. L’ho comprato già da un po’, ma ora è il momento.

Qualche annotazione: il mare è davvero fantastico, le donne pure, tanto che Luca ed io ce le rimiriamo una per una, per poi rilasciare commenti su cui sorvolo. 

Stasera ho cucinato io: pasta alla norcina senza salsiccia, sostituita dalla pancetta tagliata a pezzetti. Pare che non conoscano i cubetti di pancetta e negli spacci non trovo carne fresca, neanche le salsicce che mi sarebbero tanto servite stasera!

A dispetto della splendida giornata di oggi, stasera piove e lampeggia moltissimo. Pare che domani sarà brutto tempo. Che noia, mi rilassa molto starmene disteso sotto al sole, respirando a pieni polmoni quell’aria intrisa di salsedine, mentre il chiarore riflesso sulle rocce pare riscaldare persone ed oggetti in modo benefico.

Abbiamo dei vicini di tende molto particolari: una coppia di mezz’età che parla un dialetto napoletano stretto, mentre i figli si rivolgono loro con un accento chiaramente settentrionale, lombardo direi. Misteri della vita, proprio come nel film Incantesimo napoletano.

Le donne croate, dicevo prima, presentano tutte 2 tratti caratteristici: hanno il naso all’insu e un seno abbondante (dalla terza misura di reggiseno in avanti).

Ho riscoperto una buona birra croata, che sto gustando proprio ora mentre scrivo, si chiama Laško. Ricordo che l’assaggiai la prima volta che venni su questi lidi, 2 anni or sono. Laško pivo, laddove pivo sta per birra. In realtà, non ha un aroma così speciale, ma è unica, la posso bere soltanto qui e questo mi piace moltissimo. E’ leggermente amarognola, almeno per il mio palato, in ogni modo senz’altro migliore del vino locale. Ne abbiamo già assaggiate due varietà, davvero pessime entrambe, sembra quello fatto in casa che propinano a mio padre.

Le sigarette costano 20 kuna, la moneta locale, equivalenti a 3 euro circa, un Euro in meno rispetto all’Italia. Ma si trovano soltanto Marlboro e Marlboro light, non c’è traccia delle mie Chesterfield blue.

Luca ha il mal di gola, la tosse e quando dorme russa parecchio, poveri vicini! Il nostro accampamento è spartano ma davvero grazioso: 2 tende, un tavolino, due sedie.

Ancora gocce sulla tenda, lampi che illuminano il cielo. E la chiamano estate.


13 Agosto – 2,33 del mattino


Oggi (il 12 N.d.A.) c’è stata una novità. Dopo una giornata di mare simile alla precedente, ci siamo precipitati a rifocillarci in un ristorante di pesce. In quel luogo, inaspettatamente, abbiamo conosciuto due simpatiche ragazze milanesi. Sono 2 simpatiche e torrenziali puellae e domani forse ci accompagneremo a loro, al mare.

A parte quest’evento la giornata è trascorsa tranquilla, come dicevo, in tutto e per tutto similare a quella di ieri, sempre presso la spiaggia (o meglio le rocce e la piattaforma in cemento) vicina al campeggio.

L’isola pare una montagna emersa dall’acqua. Noi siamo nel lato settentrionale, dietro di noi ci sono le montagne e dietro ancora la costa meridionale. La terra è brulla, molto rocciosa, degrada velocemente verso il mare.

Ho ripreso la dieta, almeno durante il giorno, mi piace. Mi sento bene, in pace col mio fisico, mi pare che lo stimolo della fame mi aiuti a riprendere confidenza col mio corpo. Le giornate trascorse al mare, per noiose che possano sembrare, sono fondamentali per ritrovare l’equilibrio tanto agognato. Tra mente e corpo, tra ansia e pace. Mi sdraio sotto i caldi raggi del sole, mi tuffo, nuoto, poi passeggio. Mi pare di essere il personaggio principale di un romanzo di Hemingway, oggi, tanto per calarmi meglio nella parte, ho gradito un Mojito verso le sette e trenta del pomeriggio, tornando dal mare con Luca.

Ora vado a dormire, sul mio comodissimo materassino matrimoniale, mentre Luca già russa copiosamente dall’altra tenda!

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MUNM – Lezione I – Emancipazione

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Benvenuti alla prima lezione del Manuale dell’Uomo del Nuovo Millennio.

Prima Lezione

Emancipazione

Spegni la tv quando trasmettono le isteriche “Desperete Housewives”, il pedante “Dottor House”, la yankee “Grey’s Anatomy”, la ripetitiva “C.S.I.”. Pensaci bene, quando mai ti è interessato un accidente di medicina o della sua branca legale? Interessati a fiction italiane, od europee, prodotte con meno pecunia, ma con maggior attenzione alle storie che si vogliono raccontare. Anzi, fai una cosa, evita di guardare qualunque serie successiva al 1990. Ah, le sit-com degli anni ’80, quelle sì, quelle meritano tutta la tua attenzione: “I Robinson”, “I Jefferson”, “Happy Days”, “Super Vichy” e tante altre.

Non seguire Striscia la notizia, né Le Iene, credendo di trovarti di fronte a profeti che ci indicano la via nel deserto. Quei predicatori sono servi di colui che nel deserto ci ha condotto, a soffrire dell’arsura del contenuto.

Non appassionarti a nessun reality show, non credere a quelle sirene che strepitano a favore di questa aberrazione moderna. Non ne trarrai alcun giovamento, anzi, scoprirai, se le tue sinapsi non si sono del tutto bruciate, che la mattina ti risveglierai con pensieri del tipo: << Ma perché Chicca non ha dato una parte del suo cocco a Traiano? >>. Confessionale non sarà più quel luogo mistico in cui confessare le proprie colpe, nella penombra delle italiche chiese barocche, Grande fratello non sarà più sinonimo di 1984, e quando udirai il termine leader non penserai più a Peron, a Mao o a Napoleone, ma ti sovverrà in mente un uomo seminudo su una spiaggia con un fregio in stile finto-tribale al collo.

Non apprendere le notizie da nessun telegiornale, o, se proprio non trovi un mezzo alternativo di informazione, segui il tg de “la 7”, il migliore, per selezione delle notizie e per indipendenza (non perché lo sia totalmente, sia chiaro, ha comunque un editore).

Già che ci siamo, mettiamola sul drastico: evita direttamente di accendere la televisione, stacca la spina e respira. Rifletti: è un mezzo passato, superato, che ha fallito nel suo scopo principale, ormai gestito nel modo più autoritario per perseguire un condizionamento delle masse di stampo goebblesiano, tra l’altro in modo piuttosto goffo, agli occhi di chi conservi un po’ di raziocinio. Non ne hai bisogno e tu lo sai.

Vuoi vedere le partite? Benissimo, vai allo stadio, oppure accendi la radio. Non ricordi da ragazzino, quando la pay-tv, la pay-per-view non erano neanche nei ventri di quelle mostruose e opulente madri, non ricordi come riuscivi a seguire la tua squadra? Non rammenti quel rettangolo verde che appare dopo aver salito tutti quegli scalini, i giocatori che danzano sull’erba, il tonfo secco del capitano che scaglia uno strale imprendibile contro l’inane portiere avversario?

Nota sulla Radio: lascia stare network nazionali quali Radio Deejay, RDS, Radio Capital, almeno per quanto riguarda la musica che trasmettono. Se riuscissi ad appassionarti a emittenti quali Radio Rock, FusoRadio, Radio Città Futura, potresti ascoltare note, musicisti e melodie il cui valore è inversamente proporzionale al tempo che viene loro dedicato dalla maggior parte delle reti radiofoniche.

Nota sui tempi: a differenza di quanto succedeva anni or sono, ora hai a disposizione uno strumento incredibilmente potente e, ho quasi paura a dirlo, libero: Internet.

Libero non perché non vi siano padroni o messaggi artatamente costruiti, ma perché, a causa della possibilità, potenzialmente illimitata, di accesso e di immissione di contenuti da parte di qualunque essere umano che sappia battere le proprie dita su una tastiera, in giro per il terzo pianeta del sistema solare, le fonti si moltiplicano a tal punto da consentire di formarti un’opinione a trecentosessanta gradi.

Ah, un consiglio: anche all’interno del World Wide Web, non prendere per oro colato quello che dicono alcuni personaggi molto in vista, come Beppe Grillo. Per carità, leggi il suo blog, se lo ritieni un’attività proficua, spesso contiene spunti interessanti, altre volte idee un po’ stantie, o populiste.

E la stampa? Leggi quello che preferisci, a seconda delle tue convinzioni politiche e delle tue preferenze, ma ti esorto a concentrarti sui quotidiani più apertamente schierati, di destra o di sinistra che siano. Intendo proprio quelli finanziati manifestamente dai partiti e da organizzazioni di vario tipo. Perché? In primis perché spesso sono scritti da professionisti non retribuiti lautamente, che scrivono per passione. In secundis, perché è sempre meglio leggere un’informazione da una fonte che dichiari la propria appartenenza ideologica, politica e morale, piuttosto che apprenderla da coloro che giurano e spergiurano di essere neutrali.

Amico mio, mettiti l’anima in pace, la neutralità, nell’ambito del pensiero umano, non esiste, poiché ciascuno ha un suo, personale, punto di vista che per definizione è soggettivo e non oggettivo.

Quando riuscirai a fare quanto detto, è statisticamente provato che avrai la seguente reazione: aprirai la finestra, respirerai, ti sentirai libero e urlerai un liberatorio: <<Andatevenetuttiaffanculo!!!!!!!!!!!!!!>>.


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L’età della passione

Sono nato l’11 Aprile del 1978, alle 23,25, nella Clinica Sant’Anna di Roma, proprio accanto al celeberrimo Piper. A conti fatti, tra 5 mesi esatti compirò 30 anni, un’età importante, non c’è che dire. Non ne sono spaventato, assolutamente, non ho la sindrome del trentenne inquieto: sarà che ho sempre avuto dubbi sul mio futuro, sarà che non credo molto nei numeri, in ogni modo, sono sereno. Al contrario, mi preoccupa, e molto, la visione che alcuni miei consanguinei, per lo più estranei con cui condivido un’ascendenza comune, hanno rispetto al mos vivendi che il sottoscritto dovrebbe seguire alla soglia del compimento del terzo decennio. Ho provato a figurarmi la mia giornata ideale secondo queste bislacche convinzioni del parentado.

Ore 7,00

Suona la sveglia, vecchia e ticchettante, un trillo fastidioso e monotono. Mi alzo, lasciando la donna della mia vita al proprio russare, quindi  infilo un paio di pantofole foderate di pelliccia e vado a prepararmi un buon the. Faccio una doccia veloce, 10 minuti al massimo, poi preparo la colazione, con la calda, ambrata bevanda e le fette biscottate. Indi mi vesto, afferrando e poi indossando il completo grigio che avevo preparato la sera precedente, mi stringo la cravatta al collo, afferro il cappotto lungo e scendo in strada.

Ore 7,45

Appena fuori, mi precipito alla fermata del 105. Attendo 10 minuti, poi arriva questa sorta di carro bestiame dell’amata ATAC, stracolmo di individui nervosi e sonnolenti, dai varii, acri e penetranti odori. Alzo il braccio sinistro, mi appendo alla barra apposita e sbircio la prima pagina di “Leggo”, in mano ad un anziano e paffuto signore. Apprendo con crescente preoccupazione dell’ultima scappatella di Emanuele Filiberto di Savoia. Infine, vigorosamente mi faccio largo tra i corpi saldamente a presidio dell’uscita e scendo davanti a Porta Pia.

Ore 8,25

Entro al Ministero delle Infrastrutture, timbrando il cartellino con gaudio, mentre fischietto l’ indimenticabile ritornello dell’ultima canzone di Gigi D’Alessio. Saluto i miei colleghi e mi dirigo a passo lesto verso la mia scrivania. Accendo il pc, un Pentium 2 del ’98, poi allento il nodo della cravatta e vado a prendere il primo caffè solubile al distributore automatico. Mi guardo attorno, quindi rientro: è ora di telefonare alla mamma! Le chiedo come va, cosa faccia e cosa le dolga, per poi appassionarmi ai suoi nuovi interessi, che non manca di raccontarmi con dovizia di particolari, infine la saluto affettuosamente. Ah la mamma, è sempre la mamma! Fisso lo schermo, che mi regala un’occhiata languida di Paolo, il mio cane, con la lingua penzoloni dopo una bella corsa sulla spiaggia a Torvaianica, l’estate scorsa.

Ore 10,30

E’ l’ora del secondo coffee-break! Mi alzo, dopo aver letto tutte le principali notizie sulla Roma dal sito della Gazzetta dello Sport e, rallegrato per le migliorate condizioni del legamento crociato destro (che non ho la più pallida idea di dove cazzo si trovi e a cosa cazzo serva) di Perrotta, invito un paio di colleghi ad unirsi a me. Ci scappa anche un wafer, gentilmente offerto (che simpatico Jeux de mots!) da Gentiloni.

Ore 13,30

Dopo essermi concentrato per scrivere 2 righe atte giustificare la mia presenza al ministero, mi rendo conto che si è fatta l’ora del pranzo. Chiamo Gentiloni e Ruggeri e ci dirigiamo in mensa, nel seminterrato dello stabile. Osservo con cupidigia l’inserviente dal seno poderoso, le faccio l’occhiolino e transito col mio vassoio davanti alle mille prelibatezze al microonde offerte dal Ministero. Scelgo un’insalatina, poiché debbo stare a dieta, in previsione dell’estate e della "prova costume". Subito dopo mi concedo una sigaretta: che bricconcello che sono! Non dovrei fumare, è davvero nocivo, bene ha fatto il Ministro della Salute a proibirlo da tutti i locali pubblici.

Ore 15,30

Consegno il pacco di fotocopie al Direttore del Dipartimento e mi concedo un sudato e meritatissimo caffè, assieme a Narbocchi. Telefono poi alla mia dolce metà, in attesa del nostro primo pargolo, la quale mi rimprovera per non aver ancora comprato quel forno a microonde che le piace così tanto, quello col timer a cristalli liquidi che si proietta sulla parete. Non sa che glielo voglio regalare per Natale, che inenarrabile sorpresa le farò!

Ore 17,00

Spengo il computer, saluto un paio di colleghi stakanovisti e timbro il cartellino di uscita. Respiro a pieni polmoni l’aria grigia e carica di smog cittadino, poi  prendo il 105, affollato, se possibile, ancora di più rispetto all’andata. Tra un olezzo e un vociare diffuso, in soli 45 minuti percorriamo i 2 chilometri che mi separano dal mio accogliente nido. Scendo, raggiante come al solito, e mi dirigo verso il portone, salutando Concetto, il nostro portiere che mi ringhia contro, come ogni sera del resto. Salgo in ascensore, giro la chiave nella serratura ed apro la porta, trovando mia moglie in ciabatte e pigiama, con quel meraviglioso rigonfiamento sul ventre. Mi saluta con un cenno, continuando a parlare al telefono con Roby, la sua migliore amica. Poso la valigetta, mentre Paolo viene a leccarmi la mano. Gli faccio una carezza e sprofondo nel divano bianco panna di Ikea. Accendo la televisione, sintonizzandomi immediatamente su “Chi vuol esser milionario”. Indovino le prime tre risposte, cadendo sulla domanda di storia, e pensare che una volta era la mia materia preferita, ma ora, che me ne faccio di tutte quelle inutili nozioni? Meglio dimenticare!

Ore 19,30

Mi alzo, odo Chicca intonare sotto la doccia l’ultima canzone di Shakira, naturalmente mugugnandola, perché non sa una parola di inglese e mi dirigo in cucina, pronto a preparare una buona cenetta. Prima di mettermi ai fornelli, chiamo papà, poiché sono ben 2 giorni che non lo sento. Lui non mi telefona mai, ma insomma, sono o non sono io il figlio?


<< Ciao papone, come stai? >>

<< Bene, che c’è? >>

<< Niente papà, volevo sapere come stavi >>

<< Bene, t’ho detto, quando passi da ste parti? >>

<< Appena posso, papà, sai il lavoro.. >>

<< Come non lo sapessi che non fai un cazzo, te l’avevo detto io di studiare Ingegneria, non Scienze Politiche.. >>

<< Sì..va bene papone, ora vado a cucinare, ci sentiamo in questi giorni.. >>

<< Manco te cucina tua moglie? Ma che cazzo..vabbè, ciao >>


Tu-tu-tu-tu-tu. Soddisfatto riattacco e mi dirigo verso il congelatore, afferro due buste di Quattrosalti in padella. Una saporita amatriciana congelata e un contorno sfizioso di bieta e emmenthal: che bontà! Metto tutto a riscaldare e apparecchio per la nostra cenetta romantica. Chicca esce dal bagno, con un asciugamano marrone in testa, si affaccia ai fornelli e dice: << Ma ancora sto schifo? Che palle, io stasera passo, mi ordino una pizza >>. Un po’ perplesso, ma intuendo che il malumore è dovuto agli sbalzi provocati dalla gravidanza, sorrido e termino di riscaldare le pietanze precotte, per poi assaporarle seduto in solitaria, mentre sorbo una brocca intera di acqua freschissima.

Ore 21,00

Mi metto nuovamente davanti all’apparecchio televisivo, stasera dovrebbe esserci un’interessante fiction sulla vita di Cristiano Malgioglio, il grande autore di canzoni! Che pena, ricordo, quando l’ho visto, emaciato e dimagrito all’ ”Isola dei Famosi" (che resta senza meno la mia trasmissione preferita). Vorrei fumarmi una sigaretta, ma non posso, non voglio esagerare, ne ho già assaporata una dopo pranzo, è stata la mia piccola trasgressione quotidiana. Squilla il telefono.


<<Pronto>>

<<Pronto Le’?>>

<<Ehi, Raffae’, come stai?>>

<<Ma perché mò me chiami cor nome mio? Paffa nun va più bene?>>

<<Dai, su, ormai siamo cresciuti, basta con questi nomignoli adolescenziali>>

<<Boh, vabbè..senti, vuoi passa’ a casa mia?Sto cor Dalmata e cor Bradipo, se famo du’ partite colla play, du cannette e un paio d’amari e se n’annamo a dormi’ lisci lisci..come la vedi?>>

<<Ma che scherzi, raffaele? Io domani mi debbo svegliare alle 7, sono stanco e poi, lo sai, non bevo e non fumo più..>>

<<Vabbé, a Le’, ma almeno passa a salutacce>>

<<Non me la sento di lasciare Chicca da sola in dolce attesa, Raffaele, ti ringrazio per la premura>>

<<….’a premura? Ma come cazzo parli, Le’? Vabbé, quanno te ripiji fa’ uno squillo, bella pe’ te..>>

<<Ciao Raffae’>>

Soddisfatto, riappendo, mentre Chicca, infastidita, afferra il cordless dalle mie mani e si dirige in camera da letto, per telefonare a Jenny. Mi addormento nel periodo di outing di Cristiano e mi risveglio a notte fonda, addirittura alle 23! Bruno Vespa, da grandissimo giornalista qual è, affronta l’ennesimo caso di morti ammazzati, coi suoi sagaci plastici e i suoi spettacolosi opinionisti. Mi spingo fin oltre la mezzanotte, addirittura mezz’ora dopo, infine decido di andarmi a coricare, essendo molto il sonno arretrato ed avendo davvero bisbocciato eccessivamente.

Ore 0,30

Mi lavo i denti, infilo il mio pigiamino di flanella, e mi getto sotto le coperte, dove mi attende la mia sposa, che legge Donna moderna. L’abbraccio e sento un fremito, un battito, una leggera pulsione là, nel profondo e caliente sud. La fisso, romantico e malizioso come so essere, in queste serate di passione. Lei ricambia per un attimo quello sguardo, da vera gatta maliarda, come diceva il buon J-Ax.

<< Che te sei messo in testa? Uno già sta in canna, ne voji fa’ altri? >> toccandosi la pancia << l’abbiamo fatto già la settimana scorsa, mi vuoi dare un po’ di tregua>>. Mi previene, evidentemente spossata dalla mia sapiente e maschia attività sessuale.

<< Hai ragione fragolina, scusami >>. La bacio delicatamente sulla fronte, indi mi volgo dalla parte opposta e spengo l’abat-jour, pienamente compenetrato nella mia vita, finalmente giunto all’età della maturità, all’età della ragione.

Questa sarebbe la mia esistenza. Per alcuni sarebbe naturale il mio mondo si configurasse di tal guisa.


Invece,


mi alzo tardi al mattino, vado a lavorare, nonostante non ami il mio impiego, cercando, al contempo di ritargliarmi uno spazio per interessarmi a tutto ciò che mi garba. Fumo troppo, questo è vero, ma con gusto; bevo vino birra e tutto ciò che il sommo Bacco mi concede e mangio estasiato, assaporando le prelibatezze che la terra e la tradizione mi offrono. Adoro cavalcare il mio piccolo, vecchio, ma splendido motorino; esco con gli amici, faccio lunghe chiacchierate; non stabilisco e non coltivo legami che non siano basati sull’affetto, l’amore e il reciproco rispetto, a dispetto del richiamo del sangue.  Guardo il sol dell’avvenire con emozione e non vedo perché dover moderare le mie idee politiche, quando restano sempre vivide e scolpite nel mio essere. Faccio l’amore con passione; fantastico sempre e comunque, ovunque; scrivo tanto, su ogni cosa mi interessi, con sentimento; frequento le persone che mi suscitano sensazioni positive, ancestrali, eccessive, dolci. Inseguo chimere, rincorrendole come un bimbo dietro ad un aquilone sfuggito, senza posa, senza incertezze. A volte sono troppo infantile, a volte sono troppo timido, a volte troppo riflessivo, a volte troppo chiuso, ma mai troppo poco immerso nel mare che mi circonda. Fisso la linea d’ombra davanti a me, con l’ansia che da sempre mi caratterizza, cercando di non farmi inghiottire da essa e, in ogni modo, evitando che i numeri, in particolare quell’incombente "3", pesino più della realtà. Sono un Romantico, nel senso filosofico del termine; mi piace parlare con il mio accento e non trovo necessariamente volgare un linguaggio condito da scurrilità.

 

Mi sento molto diverso da come ero, ma, se mi volto,

vedo la strada che lenta si dipana dietro di me,

ne riconosco ogni curva, ogni rettilineo, ogni dosso

e so perché l’ho percorsa e assieme a chi.


Non veggo molto davanti a me, ma poco mi importa.

La forza e la voglia ci sono, io vivo così.

Tenetevi pure l’immagine che preferite proiettarmi addosso,

tenetevi la vostra età della ragione,

io,

come sempre, preferisco

l’età della passione.


 

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